mercoledì 29 febbraio 2012
Padre Nostro
Questa mattina ho riletto con occhi nuovi la preghiera del Padre nostro.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.
Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe». Mt 6,7-15
Che bello l'invito che il Signore ci rivolge a non sprecare parole con Dio.
E' come se Gesù ci dicesse: almeno davanti a Dio rilassati!
Non avere l'ansia di apparire al meglio; sentiti libero, te stesso, tranquillo sapendo queste cose.
Dio è un genitore amorevole, che si prende cura non solo di te ma di tutti gli uomini (è nostro, infatti!).
Nel desiderio -fatto preghiera- della santificazione del nome di Dio, della venuta del suo Regno e della realizzazione della volontà di Dio c'è espressa non solo la speranza, ma anche l'impegno di ogni credente affinché la terra, oltre che il cielo, diventi uno spazio dove tutti possano vivere la dimensione della festa, cioè della vita gioiosa, piena, realizzata (e non solo pochi che guardano indifferenti la miseria di molti): non ha, forse, Gesù stesso paragonato il Regno dei cieli ad una festa di nozze?
C'è la richiesta del pane, cioè di ciò che serve a nutrire la nostra vita, ma di un pane quotidiano che, quindi, non prevede accumuli. La ricchezza accumulata è sempre sottratta agli altri e, come la manna nel deserto, è destinata a marcire!
(…) Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne. 19Mosè disse loro: «Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino». 20Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì. (Esodo 16, 18-19)
Arriva poi la richiesta di essere perdonati, ma anche la disponibilità a perdonare. Argomento delicato, a volte ostico il perdono, eppure solo lasciando la presa dal rancore possiamo aprirci al futuro e abbandonare al nostro passato il dolore della ferita subita. Il Signore sa che di fronte all'amarezza di certe sofferenze il perdono non è un percorso umanamente proponibile. Va chiesto come dono a Dio. Eppure ci invita a fidarci e a lasciare il cuore aperto a una disponibilità che va oltre le nostre capacità.
Parafrasando la frase del padre del ragazzo epilettico in Marco 9,24:“Credo; aiuta la mia incredulità!” potremmo dire: “Signore vorrei perdonare, ma sono troppo ferito. Aiuta il mio dolore!”
Infine la richiesta di non sentirci abbandonati nella tentazione, di non vivere la lontananza di Dio nei momenti in cui sembra prevalere il male, la prepotenza, la sopraffazione, la violenza.
Qui salgono alla mente le immagini di Gesù nel Getzemani e sulla croce: “il Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” (Mt 27,46; Mc 15,34). I bravi commentatori si affrettano a spiegare che si tratta della citazione di un salmo, per cui Gesù non gridava il suo abbandono, ma invocava suo Padre.
Io penso che sia vero e questo e quello... non bisogna avere paura di ammettere che anche per gli uomini e le donne di fede può arrivare il momento in cui la lontananza di Dio si fa sentire e, normalmente, questo coincide con momenti abitati dalla sofferenza. Ecco! Gesù sa che questi momenti possono capitare e ci invita a rivolgerci a un Dio che è Padre chiedendogli di liberarci dal male.
Amen!
Sì! Così sia.
giovedì 23 febbraio 2012
Scintille
Quando agiamo egoisticamente, quando bramiamo, quando cerchiamo di possedere e trattenere qualcosa come nostro, quando ci rifiutiamo di lasciare la presa, in tutte queste occasioni stiamo agendo in modo contrario al funzionamento naturale delle cose. E' come nuotare controcorrente o cercare di acchiappare e di tenere in mano un uccello in volo. L'egoismo produce frizione e volano scintille dolorose quando sfrega contro la realtà dal verso sbagliato, sicché per il buddhismo esso non è tanto peccaminoso, quanto stupido. (Però, esattamente come per i cristiani, produce sofferenza per sé e per gli altri). Non è che i buddhisti si oppongano al godimento della compagnia delle altre persone o delle cose, ci mettono soltanto in guardia dal cercare di trattenerle e dal pensare che siano di nostra proprietà. Non appena ci comporteremo così, infatti, voleranno scintille, con il risultato di ferire le persone.
Questa bella riflessione sulle conseguenze dell'egoismo è tratta dal libro di Paul Knitter “Senza Buddha non potrei essere cristiano” Fazi Editore, 2011, pag. 14.
L'autore, prete cattolico, si è convertito al buddhismo per poi tornare ad essere cristiano, portandosi in dote, nel “riattraversare la frontiera”, tutta la profondità della spiritualità buddhista alla luce della quale anche la figura di Cristo risulta arricchita di significati.
La riflessione sugli effetti nefasti dell'egoismo nasce dalla consapevolezza che, nel divenire continuo della realtà, tutti gli esseri umani e senzienti sono collegati tra loro e con la natura in un continuo movimento che non può essere fermato, pena creare “scintille” di sofferenza.
Anche Gesù ha spesso indicato come ricetta di felicità la scelta di “lasciar andare”, (una parola più familiare alla spiritualità cristiana direbbe “rinunciare”) le cose e le situazioni che, se da una parte ci danno un senso di sicurezza, dall'altra ci fanno schiavi ed infelici.
A questo proposito illuminante è l'episodio dell'uomo ricco.
17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». 18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». 20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. (Mc 10,17-22)
Il protagonista è un “bravo” ragazzo che tenta di vivere generosamente la sua vita di fede, ma non sa rinunciare alle sicurezze identificate coi suoi molti beni che diventeranno la sua prigione di infelicità.
E' difficile scegliere di non difendere le proprie posizioni, lasciandosi scorrere nel verso della realtà, eppure è la strada che sia Buddha che Gesù Cristo ci indicano per vivere una vita realizzata.
Alla luce di questa riflessione acquista nuovo significato la frase di Gesù:
33Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva. (Lc 17,33)
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martedì 14 febbraio 2012
San Valentino
Oggi è la festa degli innamorati!
Auguri a tutti quelli che vivono l'esperienza bellissima ed esaltante dell'innamoramento.
L'innamoramento è quello stato dell'essere in cui tutti i canali di comunicazione sono aperti a ricevere dall'altro. Non c'è chiusura, non c'è sospetto. Tutto è fiducia, emozione, intensità.
Ogni essere senziente è fatto per l'amore: anche piante ed animali godono nell'essere amati.
L'essere umano ancora di più. Avendo coscienza di se stesso si realizza nel dare e ricevere amore.
Se, come ci ricorda Genesi, l'uomo è fatto ad immagine di Dio
e Dio, come dice Giovanni Evangelista, è amore
Non importa ciò che facciamo nella vita e i risultati che raggiungiamo: non riusciremo a sperimentare pace e gioia se non per mezzo dell'amore.
Anche nella nostra esperienza, quando ci vengono a mancare delle persone care, di loro ricordiamo i gesti di amore.
Così sarà pure per la nostra vita: alla fine sopravviveranno solo i frammenti di amore che avremo saputo vivere. Solo quelli diverranno immortali.
L'amore è esigente: scegliere di amare richiede di coltivare atteggiamenti a volte contrari al nostro orgoglio e alla nostra impazienza.
Gesù, però, ci insegna che amare - o almeno cercare di farlo al meglio delle nostre possibilità - è l'unica strada che abbiamo per non sprecare la nostra vita.
L'innamoramento è quello stato dell'essere in cui tutti i canali di comunicazione sono aperti a ricevere dall'altro. Non c'è chiusura, non c'è sospetto. Tutto è fiducia, emozione, intensità.
Ogni essere senziente è fatto per l'amore: anche piante ed animali godono nell'essere amati.
L'essere umano ancora di più. Avendo coscienza di se stesso si realizza nel dare e ricevere amore.
Se, come ci ricorda Genesi, l'uomo è fatto ad immagine di Dio
27E Dio creò l'uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò. (Gen 1,27)
e Dio, come dice Giovanni Evangelista, è amore
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. (1Gv 4,8)allora noi siamo fatti per essere amati ed amare.
Non importa ciò che facciamo nella vita e i risultati che raggiungiamo: non riusciremo a sperimentare pace e gioia se non per mezzo dell'amore.
1 Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.2E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.3E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.(1 Cor 13, 1-3)San Paolo nella splendida prima lettera ai Corinzi appena citata ricorda che le virtù più grandi sono fede, speranza e carità (termine usato per tradurre il greco "agape" cioè l'amore oblativo che sa donarsi per il bene dell'amato), ma più grande di tutte è la carità, cioè l'amore.
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! 1 Cor 13,13L'amore è quella forza vitale che sa vincere anche la morte. Gesù risorge perché accetta di donare la sua vita per amore e l'amore non muore.
Anche nella nostra esperienza, quando ci vengono a mancare delle persone care, di loro ricordiamo i gesti di amore.
Così sarà pure per la nostra vita: alla fine sopravviveranno solo i frammenti di amore che avremo saputo vivere. Solo quelli diverranno immortali.
L'amore è esigente: scegliere di amare richiede di coltivare atteggiamenti a volte contrari al nostro orgoglio e alla nostra impazienza.
4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. (1 Corinzi 13, 4-7)
Gesù, però, ci insegna che amare - o almeno cercare di farlo al meglio delle nostre possibilità - è l'unica strada che abbiamo per non sprecare la nostra vita.
28Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è:Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; 30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi». (Mc 12, 28-31)Buon San Valentino!
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sabato 4 febbraio 2012
Una questione di numeri
Nella Bibbia i numeri hanno un valore simbolico ed è per questo che interpretazioni troppo letterali o non contestualizzate possono portare fuori strada.
Nella cultura ebraica esiste una branca della mistica, chiamata Qabbaláh, dedicata anche allo studio della simbologia numerica.
La Qabbaláh studia la correlazione tra numeri e lettere dell’alfabeto ebraico attraverso un metodo di analisi chiamato ghematrìa.
Anche nel Nuovo Testamento vi sono esempi di utilizzo simbolico dei numeri. Vi propongo quello contenuto nell’ìncipit del Vangelo di Matteo (Mt 1,1-17).
Questo brano, che leggiamo durante la messa vespertina della vigilia del Natale, a prima vista sembra arido e noioso perché riporta una sfilza di nomi strani, per lo più a noi sconosciuti. Dà quasi l’impressione che sia inutile sprecare una messa per leggere un brano così!
In realtà, chi ha avuto esperienza di scrivere qualcosa, sa che le parti più importanti dello scritto sono la conclusione, ma ancor di più l’inizio perché -da lì- il lettore ricava la prima impressione dell’elaborato. Il primo capitolo è chiamato a contenere, in accenno, tutto quanto il lettore scoprirà proseguendo nella lettura.
Ricordiamo che Matteo evangelista era Levi il pubblicano, un ebreo che conosceva bene le Sacre Scritture tanto da citarle spesso nel suo Vangelo, ad uso della sua comunità formata da ebrei convertiti al cristianesimo. A conferma di ciò gli esegeti vedono un ritratto di Matteo in queste parole che l'Evangelista attribuisce a Gesù:
Le prime parole del Vangelo sono:
Matteo evidenzia subito la correlazione tra Gesù e Davide, il più grande re d’Israele, dalla discendenza del quale i profeti avevano predetto sarebbe uscito il Messia, colui che avrebbe liberato il popolo d’Israele.
Significativa è la profezia di Isaia che vede spuntare un germoglio dal tronco di Iesse, padre del re Davide:
Il Messia avrà su di sé lo spirito del Signore, e porterà la pace e l’armonia tra gli uomini e nella stessa natura.
Questa era la speranza di ogni buon israelita al tempo della nascita di Gesù: l'avvento del Messia, discendente di Davide, che avrebbe portato la liberazione al popolo e la pace.
Matteo vuole dire, anzi gridare alla sua comunità che Gesù Cristo è proprio il Messia, il figlio di Davide atteso, e lo fa con tutti gli strumenti che ha a disposizione, compreso il significato simbolico dei numeri.
Infatti nel versetto 17 del capitolo 1, al termine della genealogia affermerà:
Matteo, nel primo capitolo del suo Vangelo, ripete il nome di Davide per ben sei volte, ma non finisce qui.
Ritorniamo al versetto 17 del capitolo 1: qui ad essere citato per 3 volte, cioè ad essere messo all'evidenza del lettore, è il numero 14.
Per gli ebrei le lettere dell'alfabeto hanno una corrispondenza numerica: ad es: Aleph corrisponde a 1, Beth corrisponde a 2, ecc.
Le parole ebraiche nascono formate solo da lettere consonanti, le vocali sono state inserite successivamente e soltanto per facilitare la lettura e la comprensione delle parole.
Ora, secondo questa regola, volendo leggere il nome di Davide senza le vocali, il risultato è DVD.
Nell'alfabeto ebraico la lettera Daleth corrisponde a 4 e la lettera Vau a 6. Sommando il valore numerico delle lettere che compongono il nome di Davide otteniamo
(D)4 + (V)6 + (D)4 = 14
Nel versetto 17 Matteo, attraverso la simbologia dei numeri ripete ancora per 3 volte il nome di Davide, con la conseguenza che nel suo primo capitolo richiama quel nome, mettendolo in relazione a Gesù, per ben 9 volte (3x3!).
Per i suoi lettori, ebreo-cristiani, il messaggio diventava chiarissimo fin dall'inizio: Gesù Cristo di cui parla il Vangelo di Matteo è veramente il Messia atteso, il figlio di Davide.
Nella cultura ebraica esiste una branca della mistica, chiamata Qabbaláh, dedicata anche allo studio della simbologia numerica.
La Qabbaláh studia la correlazione tra numeri e lettere dell’alfabeto ebraico attraverso un metodo di analisi chiamato ghematrìa.
Anche nel Nuovo Testamento vi sono esempi di utilizzo simbolico dei numeri. Vi propongo quello contenuto nell’ìncipit del Vangelo di Matteo (Mt 1,1-17).
1 Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. 2Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, 3Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, 4Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmon, 5Salmon generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, 6Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria, 7Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asaf, 8Asaf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9Ozia generò Ioatàm, Ioatàm generò Acaz, Acaz generò Ezechia,10Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, 11Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.12Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatièl, Salatièl generò Zorobabele,13Zorobabele generò Abiùd, Abiùd generò Eliachìm, Eliachìm generò Azor, 14Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, 15Eliùd generò Eleazar, Eleazar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, 16Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.17In tal modo, tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici.
Questo brano, che leggiamo durante la messa vespertina della vigilia del Natale, a prima vista sembra arido e noioso perché riporta una sfilza di nomi strani, per lo più a noi sconosciuti. Dà quasi l’impressione che sia inutile sprecare una messa per leggere un brano così!
In realtà, chi ha avuto esperienza di scrivere qualcosa, sa che le parti più importanti dello scritto sono la conclusione, ma ancor di più l’inizio perché -da lì- il lettore ricava la prima impressione dell’elaborato. Il primo capitolo è chiamato a contenere, in accenno, tutto quanto il lettore scoprirà proseguendo nella lettura.
Ricordiamo che Matteo evangelista era Levi il pubblicano, un ebreo che conosceva bene le Sacre Scritture tanto da citarle spesso nel suo Vangelo, ad uso della sua comunità formata da ebrei convertiti al cristianesimo. A conferma di ciò gli esegeti vedono un ritratto di Matteo in queste parole che l'Evangelista attribuisce a Gesù:
Ed egli [Gesù] disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». (Mt 13,52)Da tutti questi elementi si capisce che l’inizio del Vangelo di Matteo deve avere un significato ben più denso di quello che appare ad una prima lettura. La ghematrìa ci aiuta a scoprire dei piani di lettura interessanti.
Le prime parole del Vangelo sono:
Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. (Mt 1,1).Mentre Luca fa risalire la genealogia di Gesù ad Adamo (Lc 3,38), primo uomo, in quanto la sua era una comunità di cristiani convertitesi dal paganesimo, Matteo cita, come primo capostipite di Gesù, Abramo in quanto patriarca del popolo d’Israele.
Matteo evidenzia subito la correlazione tra Gesù e Davide, il più grande re d’Israele, dalla discendenza del quale i profeti avevano predetto sarebbe uscito il Messia, colui che avrebbe liberato il popolo d’Israele.
Significativa è la profezia di Isaia che vede spuntare un germoglio dal tronco di Iesse, padre del re Davide:
1 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,un virgulto germoglierà dalle sue radici.2Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d'intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. 3Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenzee non prenderà decisioni per sentito dire; 4ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra. Percuoterà il violento con la verga della sua bocca,con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio. 5La giustizia sarà fascia dei suoi lombi e la fedeltà cintura dei suoi fianchi. 6Il lupo dimorerà insieme con l'agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà.7La mucca e l'orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. 8Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. 9Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare. Isaia 11, 1-9
Il Messia avrà su di sé lo spirito del Signore, e porterà la pace e l’armonia tra gli uomini e nella stessa natura.
Questa era la speranza di ogni buon israelita al tempo della nascita di Gesù: l'avvento del Messia, discendente di Davide, che avrebbe portato la liberazione al popolo e la pace.
Matteo vuole dire, anzi gridare alla sua comunità che Gesù Cristo è proprio il Messia, il figlio di Davide atteso, e lo fa con tutti gli strumenti che ha a disposizione, compreso il significato simbolico dei numeri.
Infatti nel versetto 17 del capitolo 1, al termine della genealogia affermerà:
17In tal modo, tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici.La ripetizione per tre volte di una parola è un modo per gli ebrei di dare alla stessa il massimo risalto. Nella lingua ebraica non esiste il superlativo: per crearlo si usa o il genitivo, o la triplice ripetizione della parola. Per fare un esempio mentre noi diciamo "santissimo", un ebreo dice "santo dei santi" oppure "santo santo santo".
Matteo, nel primo capitolo del suo Vangelo, ripete il nome di Davide per ben sei volte, ma non finisce qui.
Ritorniamo al versetto 17 del capitolo 1: qui ad essere citato per 3 volte, cioè ad essere messo all'evidenza del lettore, è il numero 14.
Per gli ebrei le lettere dell'alfabeto hanno una corrispondenza numerica: ad es: Aleph corrisponde a 1, Beth corrisponde a 2, ecc.
Le parole ebraiche nascono formate solo da lettere consonanti, le vocali sono state inserite successivamente e soltanto per facilitare la lettura e la comprensione delle parole.
Ora, secondo questa regola, volendo leggere il nome di Davide senza le vocali, il risultato è DVD.
Nell'alfabeto ebraico la lettera Daleth corrisponde a 4 e la lettera Vau a 6. Sommando il valore numerico delle lettere che compongono il nome di Davide otteniamo
(D)4 + (V)6 + (D)4 = 14
Nel versetto 17 Matteo, attraverso la simbologia dei numeri ripete ancora per 3 volte il nome di Davide, con la conseguenza che nel suo primo capitolo richiama quel nome, mettendolo in relazione a Gesù, per ben 9 volte (3x3!).
Per i suoi lettori, ebreo-cristiani, il messaggio diventava chiarissimo fin dall'inizio: Gesù Cristo di cui parla il Vangelo di Matteo è veramente il Messia atteso, il figlio di Davide.
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